Nacque a Castel di Lama il 22 settembre 1873, ma è detto da Capradosso perché la famiglia si trasferì in questo paese di montagna quando era bambino. La sua infanzia fu come quella di tutti i montagnoli: piccoli lavori di casa; pastorello del piccolo gregge familiare; lavori nei campi; approvvigionamento dell’acqua; custodia della stalla. Niente scuola, naturalmente sia perché in famiglia erano tutti analfabeti, sia perché non c’era ancora l’obbligo. Quel poco che imparò alle soglie della giovinezza fu il risultato delle pazienti “lezioni” del fidanzato della sorella Maria.

Si distingueva solo per una particolare devozione alla Madonna di Montemisio (un santuario vicino al paese) e un raro amore alla preghiera che lo tratteneva a lungo nella chiesa dopo la messa domenicale e che, più tardi, ascoltava ogni giorno rubando tempo al sonno per essere pronto al lavoro ed evitare i rimbrotti del fratello Vincenzo e della cognata Serafina.

Un giorno disse al padre che voleva ritirarsi nel convento in cui viveva il frate cercatore che periodicamente arrivava a Capradosso. Vi si chiuse un giorno in cui il fratello non era in casa, provocandone una clamorosa reazione che sopportò piegando la testa, ma restando dov’era arrivato. Era certo che Dio lo voleva lì. Lo disse al superiore del convento che lo preparò all’ingresso nel noviziato di Fossombrone, dove cambiò nome e vestito, ma non la vita perché da anni viveva come un vero frate francescano. E dove cominciò una dura lotta con il demonio che durò tutta la vita.

Da Fossombrone fu mandato a Fermo come frate cercatore. Ne fu contento perché intravide la possibilità di fare quelle penitenze che in convento gli erano state proibite perché esagerate. Ne fu contento anche il cielo che lo favorì con visioni celesti. A chi lo accompagnava nelle campagne e lo rimprovera perché si caricava di pesi eccessivi e camminava come trasognato, rispondeva: “Fratello mio, quant’è bello il paradiso!”

Quando andava solo ne approfittava per fermarsi nelle case per istruire i bambini, visitare i malati (a Lapedona baciò il volto sfigurato di una lebbrosa “perché sei mia sorella”, le disse); digiunare   fino al primo pomeriggio per ricevere l’Eucaristia; rifiutare un bicchiere di vino fresco in piena estate; battersi a sangue con la disciplina; baciare i piedi sporchi di letame a un contadino che l’aveva accolto malamente. I contadini capirono chi era quel fraticello che parlava il loro dialetto e gli chiedevano consigli, spiegazioni, preghiere, ritenendolo “più santo di un frate da messa”. Infatti spillava vino da botti vuote; risanava la fava marcita; fermava la moría dei conigli; andava in estasi; vedeva “quello che gli altri non vedevano”; parlava dell’amor di Dio entusiasmando i giovani frati; guariva le ferite con un bacio; strabiliava i dottori in teologia perché, pur non sapendo scrivere correttamente neppure il proprio nome, parlava della Trinità partendo da dove loro “non erano ancora arrivati”; osava predire (lo scrisse in un manifesto) castighi – che arrivarono davvero – se non la gente non si fosse convertita.

Non si convertì; ma lui aveva fatto il suo dovere ricordando ai fermani che “le cose di Dio” vengono prima delle “cose dell’uomo” e rafforzano il nostro appuntamento con Lui; una deliziosa conquista di Lui, necessaria come il pane e l’acqua. Se è vero che un uomo non tanto insegna quello che sa, ma quello che è, Fra Marcellino fu di una pienezza che non poteva essere maggiore perché alimentata ogni giorno “dal pane che si mangia in alto”.

Lo fermò una micidiale peritonite tubercolare contratta assistendo un confratello malato. Ricoverato in ospedale per l’operazione, rifiutò ogni forma di anestesia (“Mi basta questo” disse al chirurgo mostrandogli il crocifisso) e sopportò pazientemente per cinque mesi una piaga purulenta restia a ogni cura. Morì a 35 anni il 26 febbraio 1909, lasciando segni certi e preziosi di non comune santità riconosciuta anche dalla Chiesa che ne ha confermato l’eroico esercizio delle virtù dichiarandolo Venerabile l’8 novembre 2017.