Cappuccini Marche

Mano nella mano

Cappuccini Marche


L’immagine di “Cristo buon Pastore”, recentemente collocata presso il Seminario Regionale Pio XI di Ancona, racconta l’esperienza della redenzione che fonda la vocazione di ogni battezzato, e trasmette la ricchezza di fede di tutta una comunità monastica.
delle sorelle del Monastero di Mercatello


Questa immagine di “Cristo buon Pastore” è nata anzitutto da una bella amicizia ecclesiale, dentro la quale lo Spirito Santo, ad un certo punto, ha potuto “soffiare” un’ispirazione: rendere visibile come la vocazione di ogni battezzato si esprima e si radichi nell’esperienza della redenzione. Solo in essa, infatti, muore ciò che tiene l’uomo nella prigionia della sua individualità, per una vita nuova che non è più al singolare, ma al plurale. È la vita della Chiesa, dove io non sono più io, ma sono io-parte-di-un-corpo, io-parte-di-te.  


Quando pensiamo a Cristo “buon Pastore”, abitualmente lo immaginiamo con le pecore intorno e con un agnello sulle spalle o in braccio. Qui troviamo qualcosa di inconsueto: sulle spalle il Cristo porta un uomo – Adamo – e poi tira su per il polso anche una donna che – come vedremo – è Eva. Il linguaggio è chiaramente simbolico. Nella tradizione dei Padri della Chiesa, infatti, l’immagine del buon Pastore assume caratteristiche pasquali: il Pastore è colui che per trovare la pecorella smarrita scende fin dentro la morte e negli inferi (condizione in cui si trova l’uomo dopo il peccato: privo della vita e isolato dalla comunione), e la riporta al Padre. In Adamo ed Eva – simboli dell’intera umanità – possiamo trovare ogni volto, da quello del primo uomo fino all’ultimo che sta nascendo in questo momento. Siamo noi!
Prima o poi, infatti, tutti ci troviamo nel peccato e nella desolazione, o perché noi stessi abbiamo peccato o perché qualcuno ha commesso un peccato contro di noi. Prima o poi tutti sentiamo questo peso delle tenebre e siamo segnati nel profondo da tante morti: ferite, fallimenti, peccati, zone d’ombra, angoli di cui ci vergogniamo, figuracce che non ci perdoniamo, sogni infranti, tradimenti, paure… Queste sono le nostre morti, i segni della morte in noi.
Nella figura del “Pastore bello” possiamo allora vedere come si pone Dio davanti alle nostre morti. Che fa? Ci prende a calci? Ci strapazza? Ci dice: “Te la sei cercata, adesso stacci!”? No, il Signore risponde in maniera creativa, inimmaginabile per noi: va in cerca della pecora perduta e, se questa si trova nella morte, lui entra anche lì, pur di rimettersela sulle spalle e farla rivivere. In questo amore che si realizza sta la “bellezza” del Pastore.
Qui comprendiamo anche che la croce non è il punto d’arrivo della discesa di Dio, perché il suo obiettivo è raggiungere la sua creatura e se, per trovarla, c’è di mezzo la crocifissione, lui la vive, ma solo come una “tappa,” perché il vero scopo è il recupero nella comunione dell’Adamo che si era nascosto e che finalmente si lascia amare, si lascia riportare al Padre!


Adamo riconosce questa bontà/bellezza del Pastore, cioè la misericordia che gli è stata usata e ne identifica la sorgente, indicando il costato aperto di Cristo.
Cristo si presenta chiaramente come il Risorto: la veste sfolgorante di bianco ci parla della gloria, della luce che salva, della vita eterna del Figlio. Le ferite venate di luce/oro sono aperte, ma gloriose. I piedi sono in posizione ascendente: il Risorto, infatti, dopo essersi inabissato dentro la notte dell’umanità, ascende, ma non da solo: il fine della sua morte non è la sua personale risurrezione, bensì far risorgere noi! Notiamo il particolare incontro di sguardi: Adamo, il vecchio uomo che con il peccato ha perduto la sua identità, incontrando lo sguardo del Salvatore, finalmente scopre chi è.
È come se – specchiandosi in Cristo – dicesse: “Ecco chi sono io: lui è il prototipo e io la sua immagine. Io sono plasmato a immagine del Figlio!”.
Sappiamo – come dicono i Padri della Chiesa – che il peccato è stata una “distrazione” da parte dell’uomo che, ascoltando il serpente, ha “dimenticato” la relazione con il Padre.


L’uomo, perciò, dopo il peccato è rimasto come senza memoria, senza più sapere chi è e quale sia la sua dignità: il suo essere Figlio per Dio.
Ora, noi non siamo qualcosa di diverso rispetto a questa umanità delle origini che è precipitata nel fondo degli inferi e della morte, e incontriamo Cristo non nelle altezze della nostra bravura, ma nelle bassezze della nostra miseria, cioè da uomini spiritualmente morti. Qui il Risorto non è un eroe che esce dal sepolcro, ma è il Cristo che entra negli abissi della perdizione umana. Contemplando l’amore del Padre nel suo sguardo, ogni persona scopre in Cristo – nuovo Adamo – la propria umanità e il futuro che lo attende.
Ora Cristo vede con gli occhi di Adamo, e Adamo vede con gli occhi, pieni di misericordia, di Cristo. Lo sguardo di Adamo finalmente si sazia in quello del Redentore: è un uomo nuovo!
Vale la pena fermarsi a riflettere su questo: Cristo vede con i nostri occhi in modo che noi possiamo vedere con i suoi, per dire che in tutto ciò che vediamo e viviamo, nelle nostre gioie e nei nostri dolori, lui è lì, ci accompagna e vede tutto questo insieme a noi (proviamo a pensare come si attualizza tutto questo in un momento drammatico come quello che stiamo passando ora, come umanità).
Con questo sguardo Cristo ci assicura che lui sa ciò che stiamo attraversando. E in questo modo continua a invitarci ad una conversione più grande, a cambiare il modo in cui vediamo gli altri, affinché possiamo iniziare a guardare il nostro prossimo con i suoi stessi occhi, pieni di misericordia. Tutto questo per dire come la nostra risurrezione, fin d’ora, dipende dall’incontro del nostro sguardo con quello di colui che ci fa risorgere e torniamo alla vita perché incontriamo il suo volto.
Il Cristo, a sua volta, avendo ritrovato l’uomo perduto, sembra cercare e voler coinvolgere, nell’incontro di sguardi, anche colui che si trova davanti all’immagine: nel suo sguardo c’è posto per chiunque e, quanto più siamo perduti, tanto più siamo attraenti per lui!
Eva è afferrata da Cristo per il polso, con un gesto molto deciso. Per gli antichi il polso era la sede della vita a causa del battito del cuore che in quel punto si può sentire chiaramente.
In questo posarsi del volto di Eva sulla mano ferita di Cristo possiamo dunque scorgere una vera trasfusione di vita: la donna, nata da una ferita (quella della costola del primo Adamo da cui è stata tratta) ora rinasce da un’altra ferita: quella che il Padre ha permesso fosse inflitta sul corpo del Figlio affinché ne nascesse l’umanità salvata. Il volto compunto (ma anche disteso e pacificato), che si posa sulla mano ferita di Cristo gusta ora il vero “frutto” della vita.
Nelle ferite del Salvatore la nuova Eva ritrova l’unione della sua vita con quella di Cristo e quella di Cristo con la sua. Per questa unità – più forte di ogni peccato – Eva non può più guardare le proprie ferite, il proprio male, senza riconoscere in esso anche il luogo del suo incontro con Cristo.


Con la mano destra la nuova Eva accompagna il braccio di Adamo. È il segno della sua conversione: la stessa mano di Eva che prima aveva afferrato il frutto, ora aderisce, si dona liberamente e riconosce, nell’uomo, Cristo stesso: il vero “frutto” dell’amore del Padre che la raggiunge e dal quale ora si lascia afferrare. Anche nel “dialogo delle mani” di Cristo, di Adamo e di Eva possiamo leggere il “dialogo” d’amore tra Dio e l’umanità che avviene nella Redenzione: l’uomo e la donna, che col peccato si erano allontanati uno dall’altro, ora si ritrovano e si riconoscono come parte uno dell’altro, uno per l’altro, si danno la mano in Cristo che li ricongiunge in una nuova alleanza.
Quando ci lasciamo afferrare da Cristo, ci troviamo innestati nella sua nuova umanità e trasformati in un unico corpo: la vita della Chiesa, cioè l’amore che si realizza nell’umanità e la rende capace di comunione, di relazioni nuove e rigenerate. •

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